La Fondazione di Asimov

All’inizio degli anni ’50 lo scrittore di fantascienza Isaac Asimov pubblicò i primi tre romanzi di quello che oggi è conosciuto come il “Ciclo delle Fondazioni“, che recentemente è stato riadattato in una serie rilasciata da Apple TV. Ma i libri dello scrittore russo-americano sono tutt’altra cosa.

La geniale caratteristica di questi racconti non fu solo quella di ipotizzare l’esistenza di un complesso Impero Galattico con una capitale, il pianeta Trantor, e movimenti socio-culturali perfettamente descritti, ma quello di incorporare nella stessa narrazione principale la minaccia della sua ibridazione e caduta.

La “nuova Roma“, secondo la visione dell’autore, sarebbe stata così avanzata in ogni campo da essere in grado di prevedere con una certa precisione il proprio crollo. In questo modo il vero filo conduttore della saga sarebbe stato costruito sulle manovre di controllo dei danni causati dalla caduta dell’impero, o sulle due remote Fondazioni in cui i suoi protagonisti tentano di preservare tutta la conoscenza dell’umanità prima che sia troppo tardi.

Il Ciclo delle Fondazioni inizia con la vicenda di Hari Seldon, alto funzionario dell’Impero Galattico, fondatore e maggior esperto della disciplina della psicostoria, una disciplina che permette di tracciare delle previsioni matematicamente accurate dei risvolti storici di intere civiltà, e grazie ad essa Seldon ha previsto che l’ormai decadente Impero sarebbe crollato, precipitando la galassia in un’epoca di caos.

Sapendo di non poter prevenire questo epilogo, Seldon si mette invece all’opera per far sì che dalle ceneri dell’Impero qualcosa possa nascere in grado di strappare l’umanità dalla barbarie: la Fondazione, una piccola colonia di studiosi e scienziati con il compito di preservare la conoscenza dell’umanità e fondare le basi per la ricostruzione. Usando la psicostoria,

Seldon riesce anche a prevedere i momenti di crisi che questa illuminata comunità dovrà affrontare, e prepara una serie di registrazioni per guidarla verso il successo. Le “Crisi di Seldon” vengono gestite al meglio dai membri della Fondazione, fino a quando qualcosa accade, qualcosa in grado di scardinare e vanificare l’intero copione previsto da Seldon. La Fondazione dovrà ricorrere ad ogni sua risorsa, anche chiedere aiuto alla misteriosa, occulta Seconda Fondazione, per risolvere la crisi imprevista e tornare sul sentiero tracciato…

Nightfall

Notturno è considerato il capolavoro letterario di Isaac Asimov. Tutto ruota intorno ad una sola domanda: cosa succederebbe se gli uomini, assuefatti da sempre alla luce, si trovassero improvvisamente al buio?

Scritto nel 1941, il racconto offre numerosi spunti di riflessione sociologica estremamente attuali. Se consideriamo “Notturno” una metafora, la domanda “Cosa succederebbe se gli uomini si trovassero improvvisamente al buio?”diventa “Cosa succederebbe se il genere umano si trovasse, completamente impreparato, di fronte a un evento potenzialmente catastrofico mai avvenuto prima?”. Ed ecco che il racconto diventa improvvisamente attuale.

Ci troviamo sul pianeta Lagash, il quale orbita intorno a sei stelle contemporaneamente. Su questo pianeta non è mai notte. Il racconto descrive un momento molto particolare della storia di questo mondo, ovvero quando per una coincidenza astronomica, le sei stelle sono allineate con il pianeta e quella più vicina subisce un’eclissi per effetto di un satellite. Quando cioè dopo millenni di luce, calano improvvisamente le tenebre.

La popolazione di Lagash, spiazzata dalle tenebre fino alla follia, è l’emblema dell’umanità che reagisce col panico e l’isteria davanti a un evento per nuovo e inaspettato. Oggi sappiamo che la pandemia da Covid-19 può essere gestita e controllata. Ma se ritorniamo ad un anno fa, ci rendiamo conto che la paura istintiva nei confronti dell’ignoto non era diversa da quella descritta nel racconto.

Asimov nel suo racconto non parla di malattie contagiose, né profetizza spaventosi virus, si limita a tracciare un quadro comportamentale della società umana rispetto alla notizia di gli eventi che si profilano come terribili.

Fantascienza inclusiva

Negli ultimi anni si è diffusa la consapevolezza che una visione del futuro limitata esclusivamente a navicelle e città volanti sia parziale e inadeguata.

Sta quindi emergendo una fantascienza più inclusiva, più vasta sui temi e sulle riflessioni del futuro: titoli TV quali The Expanse o Black Mirror segnano un profondo solco tra le produzioni del passato e quelle contemporanee.

Nel 2018, con “Discovery“, anche una serie storica come Star Trek  ha finalmente proposto come protagonista una donna nera, con una capitana malese di origine cinese e una coppia di uomini gay nell’equipaggio. Star Trek ha impiegato ben cinquantaquattro anni dalla prima messa in onda della serie originale per arrivare all’ultima sua forma inclusiva (e un po’ riparatrice)di un futuro che, se non fosse stato per la parentesi del capitano Kathryn Janeway, avrebbe continuato a perpetuare gli standard puramente patriarcali degli anni ’60.

Anche l’ultimo reboot cinematografico di Star Trek aveva provato a riscrivere il personaggio del tenente Sulu sulla magnetica personalità del primo attore e attivista per i diritti LGBT+ George Takei, per poi falciare tutto nell’editing finale.

Nella storica controparte di George Lucas, con l’ultimo capitolo Star Wars: l’ascesa di Skywalker, dopo quarantatré anni dal primo episodio, c’è finalmente un bacio tra una coppia di donne che persiste nel montaggio finale, benché solo nei paesi occidentali. Scene che vivono sempre sullo sfondo, come se quello fosse l’unico ecosistema dove possono vivere le persone LGBTQ+ nella fantascienza. Perché futuro sì, ma non esageriamo, signora mia.

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Le otto stelle di Jean-Luc

Il nostro Universo risulta spesso persino più bizzarro e straordinario di quanto la fantascienza riesca ad immaginare. La natura e la composizione dei più piccoli quanti della materia, l’origine e il destino dell’Universo e le componenti invisibili e oscure dello spazio rappresentano solo alcuni esempi di come la realtà superi la fantasia.

Va tuttavia riconosciuto che tra le produzioni fantascientifiche, la saga Star Trek risulta forse la più visionaria. Nella recentissima serie TV dedicata all’ammiraglio Jean-Luc Picard, è stata infatti presentata una nuova idea che va oltre i limiti della conoscenza scientifica.

Sappiamo che i sistemi multi-star sono abbastanza comuni nell’Universo, ma in Star Trek Picard viene introdotta l’idea sconvolgente dell’esistenza di un sistema addirittura ad otto stelle. Ma cosa dice oggi la scienza su questa possibilità?

Nel 1994 fu costituito il Rsearch Consortium On Nearby Stars (RECONS) , per indagare e conoscere le stelle più vicine alla Terra. Negli ultimi 25 anni, la loro ricerca è stata estesa ad una distanza di 25 parsec (circa 82 anni luce), identificando e misurando più di 2.000 sistemi stellari vicino a casa. Mentre quasi il 75% dei sistemi si è rivelato simile al nostro Sistema solare – con una sola stella che fissa il resto del sistema – si è scoperto che i restanti sistemi multi-stella contengono circa la metà delle stelle complessive.

  • 1533 sistemi a stella singola,
  • 509 sistemi binari,
  • 102 sistemi tripli,
  • 19 sistemi quadrupli,
  • 4 sistemi quintupli e persino
  • 1 sistema sestuplo.

Nel complesso, su 2.959 stelle in un raggio di 82 anni luce da noi, quasi la metà (1.416 su 2.959, o 48%) è parte di sistemi multi-star.

In particolare, quell’unico sistema sestuplo, Castor, è stato un oggetto di interesse astronomico fin dai tempi antichi, poiché è il 24° sistema stellare più luminoso nell’intero cielo notturno della Terra. Situato ad una distanza di soli 51 anni luce di distanza, Castor rappresenta un modello di tante stelle legate insieme in un unico sistema.

Il sistema più luminoso, Castor A, è un sistema binario stretto composto da due stelle in orbita l’una con l’altra per un periodo di soli 9,2 giorni. Il secondo sistema più luminoso, Castor B, è anche composto da due stelle che orbitano molto rapidamente tra loro: con un periodo di 2,9 giorni.

I sistemi Castor A e Castor B sono legati insieme, ma sono ampiamente separati l’uno dall’altro; ci vogliono circa 445 anni perché completino un’orbita l’una attorno all’altra. Ma Castor C, il terzo componente, è un altro binario stretto, composto di due stelle nane rosse. Sebbene orbitino in modo incredibilmente rapido tra loro, con un periodo di 19,5 ore, Castor C impiega 14000 anni per completare una rivoluzione attorno agli altri due.

Ai nostri occhi, tutte le stelle nel cielo notturno appaiono come singoli punti di luce; ma molte di esse sono in realtà sistemi multi-star.
Ovunque vediamo una sola stella, è fisicamente possibile che in realtà vi siano due stelle fintanto all’interno di un’orbita simile a quella di Mercurio rispetto al nostro Sole. Questi sistemi binari stretti rendono improbabile la presenza di un altro oggetto in un’orbita ristretta. Ma in una posizione abbastanza lontana (diciamo, nell’orbita di Saturno o oltre), potrebbe essere fisicamente presente un altro oggetto enorme.

In Star Trek Picard, il sistema ottonario con al centro un unico pianeta quasi immobile sarebbe stato realizzato da una antica civiltà estremamente evoluta. Tuttavia, se da un punto di vista puramente teorico questo sistema sarebbe fisicamente possibile, la sua realizzazione sarebbe estremamente dispendiosa dal punto di vista energetico.

Kobayashi Maru

Il test della Kobayashi Maru è una prova di simulazione per i cadetti che frequentavano l’Accademia della Flotta Stellare durante XXIII secolo. Venne usata principalmente per valutare nel cadetto la disciplina, il carattere e la capacità di comando di fronte ad una situazione impossibile in quanto non vi era una risposta al problema.

Il test della Kobayashi Maru venne programmato da Spock, tra il 2254 ed il 2258. La simulazione serviva a generare nei cadetti “l’esperienza di paura che si prova guardando in faccia la morte certa“, imparando a mantenere il controllo di se stessi e della nave, nonostante la paura. Nella simulazione, il Comando della Flotta Stellare inviava l’ordine di soccorrere la USS Kobayashi Maru, sotto l’attacco di falchi da guerra Klingon.

Nel 2258, James T. Kirk, al terzo tentativo di superare il test, inserì delle subroutine per rendere superabile la prova, eliminando dall’attacco dei vascelli Klingon i loro scudi e rendendoli vulnerabili ad un solo colpo di siluro fotonico. L’udienza chiamò di fronte tutta l’assemblea dei cadetti della Flotta Stellare per determinare la colpevolezza di Kirk, ma il procedimento venne interrotto da una chiamata di soccorso da Vulcano, che era sotto l’attacco di Nero. Kirk ricevette una sospensione accademica, fino a quando il Consiglio dell’Accademia poteva pronunciarsi sul caso.

Pur collaborando alla programmazione del test, Spock dichiarò che non aveva mai preso parte al test della Kobayashi Maru. In punto di morte (Star Trek II: L’ira di Khan), Spock descrive il suo sacrificio, come la sua soluzione allo scenario.

Star Trek: Picard

A poco meno di 20 anni dopo gli eventi del film Star Trek: Nemesis, Jean Luc Picard non è più un capitano o un ammiraglio. Vive alla tenuta di famiglia, lo Chateau Picard, coltiva vigne e produce vino.

Star Trek: Picard, targata Cbs, arriverà da noi in Italia con Amazon Prime Video il 23 gennaio 2020.

L’attore inglese Sir Patrick Stewart è salito sul palco di Lucca Comics & Games 2019, per raccontare ai fans di Star Trek, come è nato e si è sviluppato il progetto che ha portato al ritorno televisivo del capitano dell’Enterprise.

Questa nuova serie non vuole solo raccontare una storia sci-fi, ma intende anche riflettere il mondo attuale: “Il mondo attuale – spiega Stewart – è un gran casino e la serie lo mostrerà. È molto diversa dalle serie classiche, ma anche molto simile nel modo in cui guardiamo l’umanità“.

Torneranno tanti elementi che hanno reso celebre le serie di Star Trek, compresi alcuni dei personaggi di Next Generation, come Data.

Vengono però introdotti anche aspetti inattesi e particolari: Picard infatti avrà un cane: un pit bull. È stata una idea di Patrik Stewart, che con la moglie è appassionato di questa razza.

In verità, non volevo fare di nuovo Picard“, confessa Stewart. “Non c’entrano affatto sentimenti negativi o brutte esperienze. Era semplicemente perché, nei 17 anni in cui ho ricoperto il ruolo, per 178 episodi della serie e 4 film, pensavo di aver dato tutto ciò che avevo sia al franchise che al personaggio“. Un ruolo che in effetti è sicuramente tra i più amati nella storia di Star Trek. “Ero convinto che tornare avrebbe avuto poco senso: apparteneva al passato“, continua. “Ma poi ho ascoltato l’idea di Alex Kurtzman e Michael Chabon sulla serie e ho chiesto che mi mandassero del materiale cartaceo da studiare: mi sono arrivate 35 pagine. Li ho incontrati una seconda volta, anche se non avevo ancora deciso, perché avevo una domanda importante da fare: se fossi tornato a essere Picard, quanto sarebbe cambiato rispetto al passato? La risposta che mi hanno dato è stata molto. Avevo tra le mani un nuovo personaggio e così ho accettato“.

Evangelion Saga

Il finale di Neon Genesis Evangelion, racchiuso nei due episodi conclusivi, è uno dei più contestati della televisione, tanto da far impallidire l’epilogo di Game of Thrones. Invece che narrare gli eventi successivi all’avvento dell’ultimo Angelo e rivelare il destino della Terra, il risultato dell’attacco subito dalla Nerv e l’esito dei piani del Dott. Ikari (intento a creare una coscienza collettiva di tutta l’umanità che lo riunisca con l’amata moglie morta), le puntate conclusive sono ambientate nel palazzo mentale del protagonista Shinji.

Realizzata nel 1995 e sceneggiata da Anno Hideaki, geniale e criptico autore nipponico, Evangelion è ambientata nel 2015 dove piloti adolescenti sono chiamati a guidare giganteschi robot (o almeno questo è quello che sembrano) detti Eva contro mostri alieni. La sinossi non si discosta molto dai classici cartoni animati coi robottoni degli anni Settanta, tuttavia l’anime è molto, molto più articolato, per come dispensa la verità sugli invasori e sugli Eva, per le istanze filosofiche disseminate nella storia, per i riferimenti a svariate religioni e per l’impressionante analisi psicologica dei personaggi.

Anno era attratto dall’idea – la stessa di svariate storie di fantascienza da 2001 Odissea nello Spazio Prometheus – di una razza aliena che insemina i pianeti abitabili come la Terra con la vita, per poi annientarla una volta che questa ha raggiunto uno sviluppo critico. Lo scienziato Ikari, con il supporto dell’organizzazione Nerv, porta avanti il progetto degli Eva, sorta di esoscheletri pilotati mentalmente da ragazzini durante gli attacchi degli Angeli.

La saga di Evangelion consta di vari capitoli: dopo la serie regolare furono prodotti due film gemelli – Death & Rebirth – atti a rimediare a una conclusione che aveva gettato nello sconforto e nella confusione gli spettatori. Death è un montaggio degli episodi fino al penultimo, mentre Rebirth racconta gli eventi fuori dal palazzo mentale di Shinji, descrivendo l’attacco dell’organizzazione Seele ai danni della Nerv. Il risveglio di uno degli Eva dovrebbe scongiurare la disfatta, ma esistono altri nove Eva costruiti dagli avversari di Ikari che incombono.

L’epilogo di questo affresco apocalittico va cercato in The End of Evangelion, l’ultimo capitolo (se escludiamo Rebuild of Evangelion che è una remake dell’opera e i cui eventi potete scoprire da soli) della storia che descrive gli effetti della fusione tra angeli e umani e il ruolo di Rei e Shinji nella salvezza (o disfatta) dell’umanità.

Teletrasporto, inquietante azione a distanza

Einstein non lo riteneva possibile e la chiamava “spooky action at a distance”, “inquietante azione a distanza”. Ora l’espressione è diventata il titolo di un libro di George Musser, uno dei più popolari divulgatori della fisica teorica della rivista Scientific American, appena pubblicato da Adelphi.

Il significato più esatto di “spooky” è “spaventoso”, nel senso dei fantasmi. Per Einstein ammettere l’esistenza del teletrasporto equivaleva a riconoscere una realtà soprannaturale. Per molti scienziati dell’epoca era una specie di scomunica.

Einstein mostrò in un famoso articolo che, secondo la meccanica quantistica, due particelle potevano influenzarsi istantaneamente a distanza, una possibilità negata dalla teoria della relatività. Le spiegazioni possibili erano due. La meccanica quantistica potrebbe “non essere completa”, cioè potrebbero esserci proprietà della materia che ne determinano il comportamento ma che ancora non abbiamo scoperto. Oppure si sarebbe dovuto buttare a mare il principio di località.

La “località” sembrava una proprietà indiscutibile della realtà, prima ancora della teoria fisica: significa che ogni cosa ha una posizione ben precisa e che le cose interagiscono prima con quelle a cui sono vicine. Nella teoria della relatività di Einstein, questo si traduce in una proprietà ben definita: particelle, onde, segnali non possono trasmettersi istantaneamente da un punto all’altro, visto che non possono viaggiare più velocemente della luce (300 mila chilometri al secondo). Rinunciare a questo limite significava abbandonare la teoria della relatività ristretta, a cui la stessa meccanica quantistica doveva parte del suo successo empirico. Impossibile. Fu chiamato “il paradosso EPR” dalle iniziali dei suoi scopritori.

Negli anni sessanta, tuttavia è stato possibile osservare il fenomeno si chiama “entanglement”, cioè “intreccio”, attraverso la generazione in laboratorio due fotoni “intrecciati” (cioè due raggi di luce di debolissima intensità ottenuti dalla separazione di un raggio appena più intenso e che procedono in direzioni diverse). Questi raggi di luce, secondo la meccanica quantistica, hanno proprietà fisiche intrinsecamente casuali, che assumono un valore solo dopo essere state misurate: una di queste è la polarizzazione della luce, lo stesso fenomeno contro cui combattono i fotografi quando vogliono eliminare i riflessi dalle foto con i filtri.

Se i fotoni si allontanano tra loro e si misura separatamente la loro polarizzazione, si ottengono valori statisticamente correlati l’uno all’altro, come se anche a grande distanza i fotoni si “copiassero” istantaneamente l’uno sull’altro. Esperimenti del genere sono stati ripetuti su distanze enormi, come quelle che separano la terra dai satelliti in orbita.

Se ci si riuscisse con tutte le particelle che compongono un’automobile, riusciremmo a far comparire un’automobile esattamente uguale a un’altra dal nulla: per questo si parla di teletrasporto. Per ora gli scienziati se ne occupano una particella per volta, ma chissà. In ogni caso, la meccanica quantistica sembra decisamente “non locale”.

Il ponte dell’Enterprise

Non è certo passato inosservato il design del ponte di comando della U.S.S. Enterprise che compare nell’episodio 13 della seconda stagione di Star Trek Discovery.

La scenografa della serie TV, Tamara Deverell, ha recentemente raccontato di avere iniziato a progettare gli interni dell’Enterprise già nel corso della prima stagione. Tuttavia, gli sceneggiatori decisero di rivelare l’Enterprise solamente nell’episodio finale della stagione.

Il ponte dell’Enterprise è stato ridisegnato su quello della serie classica, riproponendo addirittura i pulsanti della strumentazione originale. E anche le rifiniture sono quelle del caratteristico colore rosso-arancio.

In Discovery, ambientato 10 anni prima delle vicende di cui sarà protagonista il Capitano Kirk, l’Enterprise rappresenta la nave tecnologicamente più avanzata della Flotta Stellare e ricopre il ruolo di vascello di supporto. Anche le divise dell’equipaggio sono state riprodotte secondo lo stile della serie classica, e vengono anch’esse presentate come una avanguardia innovativa del nuovo stile della Flotta.

Star Trek Discovery è una serie moderna, e innovativa, ma pensata anche per collegare le varie serie TV precedenti attraverso lo sviluppo di numerosi passaggi che riprendono le vicende fondamentali dell’universo Trek.

Una letteratura dal realismo aumentato

Il realismo ha bisogno di un presente inquadrabile, relativamente statico e dunque fotografabile. Oggi, un tentativo di fotografare la realtà contemporanea è destinato nella maggior parte dei casi a fallire: il presente è un concetto sempre più mutevole, impossibile da inquadrare in tempi utili, ogni “fotografia” che si tenti di scattare rischia di uscire dallo sviluppo già ingiallita.

Non è un caso. Negli ultimi dieci anni, il nostro modo di interagire e comunicare è cambiato esponenzialmente: nel 2008 Facebook aveva meno di 100 milioni di utenti, Twitter meno di 6, l’iPhone era appena uscito, i tablet non esistevano, come non esistevano Whatsapp, Tinder, Instagram e molte delle app che oggi fanno da tessuto connettivo virtuale della società distribuita.

La reazione più diffusa di fronte alla sfrenata mutevolezza del presente è quella di ambientare le proprie storie in un passato recente o eliminando ogni tecnologia (a partire dagli smartphone) dall’equazione. Negli ultimi tempi però si sta facendo strada una soluzione diversa, più ambiziosa e interessante: se il presente cambia troppo in fretta, un’alternativa percorribile è utilizzare come sponda il futuro prossimo.

La letteratura speculativa è il realismo dei nostri tempi. Descrive il presente nello stesso modo in cui un tiratore colpisce un piattello, mirando un poco più avanti della posizione in cui è il bersaglio, rivelando ciò che pur non essendo ancora presente, sta già avendo un impatto. […] Non si tratta di preconizzazione. È il prodotto di un’azione duplice, come le lenti di un paio di occhiali 3D. Attraverso una lente, ci impegniamo nel tentativo di ritrarre un futuro possibile. Attraverso l’altra, vediamo il nostro presente metaforicamente. […] Alcuni lettori non riescono a unire queste due visioni, per questo a loro non piace la fantascienza.

Kim Stanley Robinson

L’analogia di Robinson è efficace, ma allo stesso tempo tradisce un preconcetto tipico di molta letteratura speculativa, secondo cui il mondo dei lettori si dividerebbe in due macrocategorie che si intersecano a malapena: da un lato ci sarebbero gli schiavi del realismo a tutti i costi, troppo limitati (o in cerca di rassicurazioni) per spingere lo sguardo oltre l’orizzonte più vicino; dall’altro ci sarebbero le menti visionarie, capaci di disancorarsi un poco dal terreno solido della realtà presente per lasciar l’immaginazione libera di correre.

Questa suddivisione è stata messa fortemente in crisi, di recente, grazie a una serie-TV antologica – Black Mirror – che sebbene includa nelle sue trame elementi futuribili, sebbene utilizzi alcuni espedienti narrativi tipici delle distopie, viene apprezzata da un pubblico amplissimo, tra cui anche da molti che solitamente la fantascienza non la toccherebbero nemmeno coi guanti. Questo accade non soltanto per l’originalità delle storie o della cornice scelta, quanto per l’utilizzo di un approccio diverso, in cui le componenti esotiche e allegoriche lasciano spazio a ponti diretti con il presente, riferimenti talmente vicini e riconoscibili da lasciar pensare più a una nuova forma di realismo che a un nuovo genere di fantascienza.

Anche quando gli ultimi due decenni non vengono esplicitamente chiamati in causa, l’impressione è di ritrovarsi in una sorta di ambiente neutro, bonificato da ogni tecnologia mobile e social, un “passato senza tempo” che è in tutto e per tutto identico al presente, eccezion fatta per Twitter, Google, Facebook e tutte le innovazioni tecnologiche che rendono più difficile raccontare una storia e gestirne i conflitti.